Marco Bonini era un ottimo sciatore pur essendo nato in una
piccola cittadina nella pianura piemontese. Aveva iniziato da ragazzino grazie
a una famiglia non ricca ma senza problemi che dalla grigia Novara lo portava
ogni volta che era possibile a sciare sul Monte Bianco. I Bonini affittavano
regolarmente un appartamento per la stagione invernale a Morgex, paesino pochi
chilometri più a valle di Courmayeur e molto più abbordabile come prezzi. Forte
fisicamente, Marco riuscì a compiere per intero il percorso propedeutico all'agonismo
con lo sci club locale, e arrivò a disputare alcune gare di slalom e slalom
gigante con risultati discreti. Il lavoro nell’azienda di famiglia e il non
vivere sul posto lo costrinsero però ad abbandonare l’attività agonistica
appena dopo il diploma da geometra, e comunque sarebbe stato già in ritardo per
il passo successivo. A quell’età infatti i tanti amici che si era fatto lassù
negli anni avevano in maggioranza abbandonato le gare e preso l’ambíto
distintivo, la patacca da maestro di
sci, e già lavoravano sulle piste. Il
padre aveva un’impresa edile, e Marco iniziò a seguire i cantieri e ripose gli
sci, perlomeno quelli da competizione. Continuava però a frequentare la
montagna, un week end al mese al massimo, e non sempre. Era un gran lavoratore,
ma dopo una decina d’anni la lena del giovane nulla poté contro avvenimenti più
grandi di lui. La crisi edilizia e un
infarto del padre colpirono duramente l’azienda, che con il titolare a
riposo forzato, tanti debiti e poche commesse fu costretta a portare i libri in
tribunale. Dei beni di famiglia rimase poco, giusto la casa dei genitori, e
l’appartamento di Marco finì venduto a molto meno del suo reale valore per
soddisfare banche e creditori.
Che fare senza più lavoro, già ben oltre i trent’anni e con
soltanto un misero diploma da geometra in mano?
Marco aveva ancora degli amici in alta Valdigne, così si
chiama la valle che da Aosta porta al Monte Bianco, e in un marzo che non si
decideva a tramutarsi in primavera prese l’auto, caricò gli sci e salì a
Morgex. Il suo migliore amico dei tempi delle gare, Jean Claude, avrebbe potuto
ospitarlo. Si era sposato ma si era separato e grazie alle nuove leggi aveva
anche già divorziato. La moglie si era risposata, lui no, e fu ben contento di
ospitare Marco nel suo piccolo appartamento, si sentiva molto solo in quel
periodo.
Jean Claude non era diventato maestro di sci. Era andato a
lavorare appena maggiorenne come operaio sugli impianti sciistici di Courmayeur
ma era comunque un ottimo sciatore ed era stato presto promosso al grado di pisteur, ovvero addetto alla
manutenzione delle piste. Quasi meglio che fare il maestro di sci,
effettivamente. Non doveva stare tutto il giorno ad insegnare a branchi di
ragazzini viziati e viveva ugualmente con gli sci ai piedi, su e giù per le
piste a sistemare reti di protezione, fare la manutenzione ai cannoni
sparaneve, e quando dopo una grossa nevicata doveva andare a fare la bonifica
delle piste per fare scendere le valanghe con i candelotti di dinamite era
costretto spesso a fare tratti di fuoripista con la neve fin quasi all’inguine.
Marco fu fortunato. Trovò presto lavoro in un’impresa edile,
la zona aveva risentito della crisi molto meno del resto della penisola, e
riuscì ad affittare un monolocale a poco prezzo. Godendo come geometra di una
certa libertà il nostro prese ad accompagnare Jean Claude in giro per boschi e
canali innevati, nei giorni di riposo ormai i due non facevano altro che sciare
fuori pista. La zona del Monte Bianco è un paradiso per quell’attività, altrove
scoraggiata ma lì come in tutte le Alpi francofone addirittura incentivata.
Marco come abbiamo detto arrivò in una primavera anomala,
fredda, con la neve che ancora presentava caratteristiche invernali, e su consiglio
di Jean Claude acquistò un paio di sci da free
ride, rispetto ai moderni sci da pista più larghi sotto la pianta del
piede, meno sciancrati e parecchio più lunghi, allo scopo di assicurare una
migliore galleggiabilità sulla neve fresca. Sui versanti esposti a nord la neve
era ancora polverosa, fresca e leggera, non abbondante come dopo le grandi
nevicate di gennaio e febbraio quindi anche meno pericolosa, ma capace di
regalare emozioni uniche a un neofita come Marco, che nonostante l’ottima
tecnica non era quasi mai uscito dalle piste battute.
Jean Claude aveva un suo metro personale di valutazione del
pericolo valanghe.
Grado 1: piuttosto che sciare sui sassi è meglio andare a
pescare.
Grado 2: sicuro ma poco divertente.
Grado 3: situazione ottimale a patto che sai quello che fai.
Grado 4: sciare soltanto nei boschi e guai a avventurarsi in
terreni aperti.
Grado 5: stare al bar…
Fino a marzo inoltrato la neve rimase su un perfetto grado
3. Grazie all’esperienza del valdostano i due riuscivano sempre a trovare
pendii vergini o comunque poco battuti da altri sciatori, e piano piano le
tracce degli sci di Marco in quei 30/40 cm di neve fresca iniziarono ad
assomigliare come eleganza a quelle dell’amico. Jean Claude sapeva tutto di
quei canali che a nord si affacciano sulla Val Veny. Sapeva dove il vento aveva
accumulato insidiose placche di neve instabile e sapeva come evitarle, sapeva
dove un pendio all’apparenza invitante poteva finire su un pericoloso salto di
rocce, o dove piccoli rigagnoli potevano trasformarsi in cascatelle di ghiaccio
invisibili sotto il manto nevoso.
All’inizio non fu semplicissimo per Marco. Come tutti gli
sciatori da pista al contatto con neve che arriva al ginocchio si trovò un po’
in difficoltà. Non è vero che per sciare in neve fresca bisogna portare il peso
più indietro, bisogna anzi essere perfettamente centrali, e usare molto le
gambe. Gli sci non girano col solo spostamento del baricentro come insegna la
supertecnica inventata da Alberto Tomba e adottata da tutte le scuole mondiali
fin dagli anni 90, facilitata ormai dagli sci di nuova generazione e dalle
piste perfettamente battute, ma non bisogna neppure sciare come gli antichi con
gli sci uniti. Marco dovette imparate l’indipendenza di gambe, la fatica del
tirarsi fuori a ogni curva, la furbizia necessaria a leggere il terreno.
Bisogna saper lasciare andare gli sci su terreno poco ripido per non trovarsi
piantati come un’automobile nel fango e occorre saper chiudere le curve fino
quasi ad arrestarsi quando il terreno si fa ripido o denso di ostacoli. Solo
dopo lunga pratica si può iniziare a cercare la velocità anche fuori pista come
gli atleti della Red Bull, ma a Marco e Jean Claude comunque questo interessava
poco. Era molto più intrigante prendersi pause per fotografare le orme che un
animale aveva lasciato nella neve, oppure stare ad osservare l’aquila o il
gipeto, o ancora cercare nuove linee tra le infinite possibilità che un terreno
senza paline e reti di protezione può offrire a chi ha le palle e la conoscenza
per avventurarsi in quei terreni vergini. Oddio, vergini, negli ultimi anni la
moda del cosiddetto free ride aveva
contagiato anche parecchi turisti che spesso finivano poi col cacciarsi nei
guai, ma per i valligiani qualche tratto di terreno intonso risparmiato dai
nuovi uomini e donne avventura rimaneva sempre su quei versanti immensi. I
due scesero nei primi giorni sui più frequentati canali dei Vesse, spesso già
tracciati da guide con i clienti e turisti vari, per poi andare a scoprire i
dossi che li separano, il canale degli Spagnoli, il cappello del Vescovo,
l’enorme conca dell’Arp Vieille. Fu un momento magico. Frequenti perturbazioni
portarono neve mai eccessiva a intervalli di pochi giorni, che cancellava le
tracce precedenti mano a mano che si diradavano le file di turisti già con la
testa al mare e all’estate.
Curva dopo curva venne poi la primavera, quella autentica.
I canali a bassa quota divennero impraticabili a causa delle
valanghe che col disgelo scendevano dai fianchi di questi riempiendoli di duri
blocchi di neve ghiacciata, e Jean Claude pensò che fosse giunto il momento di
portare l’amico sulle alte quote e i ghiacciai del versante sud, dove la neve
subisce un processo di trasformazione, a causa delle alte temperature durante
il giorno e del successivo rigelo notturno, che crea il famoso e agognato firn, quello stato del manto nevoso che
non dura più di un paio d’ore nell’arco della giornata ma che rappresenta il
massimo del godimento per gli amanti del fuoripista, al pari della neve fredda
invernale. Due centimetri di neve morbida e addomesticabile su un fondo duro ma
non ghiacciato, sodo e appetibile come i fianchi di una donna che pratica molto
sport.
Un paio d’ore di orgasmo puro in pratica.
Marco aveva notato che quel paio d’ore erano ormai l’unico
momento in cui a Jean Claude riusciva ad accendersi una luce negli occhi, ed
era dispiaciuto e preoccupato .
L’amico stava male, si vedeva. La ex moglie, una ragazza
sarda che era andata a fare la cameriera a Courmayeur per una stagione, giusto
il tempo di rimanere incinta, era tornata a Cagliari con la bambina e Jean
Claude era quasi impazzito. Beveva un bel po’ già da prima, ma quello si sa è
un vecchio vizio di quasi tutti i montanari, però negli ultimi tempi le sue
sbronze erano diventate tristi. In montagna rinasceva, poi una volta tornato in
paese finiva ormai tutti i giorni col tornare a casa barcollando. Marco non lo
abbandonava mai, e spesso anche lui si ritrovava in cantiere il giorno dopo con
un bel cerchio alla testa.
Fu in una mattina di cerchio alla testa per entrambi che
Jean Claude si dimostrò il più lucido dei due e salvò la vita a Marco. Erano
saliti al colle delle Aguilles Marbrée per scendere sul pendio che porta sulla
Val Ferret dopo quasi 2000 mt di dislivello.
E’ un posto per gente esperta. Prima trovi un difficile
tratto a una pendenza che un tempo sarebbe stata considerata sci estremo ed ora
declassata solamente a sci ripido,
poi una zona di crepacci quindi, finalmente fuori dai pericoli, una bella
sciata su pendii dolci e boschi fino all’abitato di Planpincieux. Era ancora
presto e la neve ghiacciata della notte non era ancora diventata firn ma chissà perché Jean Claude aveva
fretta di scendere. Temeva forse che ci sarebbe stata una giornata più calda
del solito e non voleva rischiare di trovarsi invischiato nella neve marcia a
fine discesa, o forse stava semplicemente male con sé stesso come sempre più
spesso accadeva. Normalmente i due si sarebbero fermati al colle a prendere il
sole, a fumare una sigaretta – cosa che a 3550 mt non è proprio il massimo ma
lo facevano sempre – e ad aspettare il momento ottimale come due surfisti in
attesa dell’onda perfetta, ma quel giorno iniziarono troppo presto a sciare
l’insidioso traverso che porta nel canale. Il fondo era ancora duro come marmo.
Le tracce di coloro che li avevano preceduti nei giorni addietro avevano
formato durissime rotaie e Marco era nervoso. Jean Claude lo tallonava
strettamente. Il traverso è lungo un centinaio di metri ed è talmente ripido da
poter appoggiare una mano sul pendio alla tua destra mentre lo percorri. Marco
iniziò a prendere velocità, gli sci presero a sobbalzare sulle rotaie di
ghiaccio, perse il controllo, incrociò gli sci e cadde verso l’abisso. Jean
Claude era un metro dietro di lui e riuscì ad afferrare il cappuccio della sua
giacca che tenne, non si strappò e Marco rimase quasi appeso su un muro ghiacciato
di 600 mt a circa 50 gradi di pendenza. Non perse gli sci fortunatamente e
riuscì a raddrizzarsi con il cuore a mille. Un volo in quel punto vuol dire
morte certa, lo sanno tutti i frequentatori di quel posto. Jean Claude non
disse neanche una parola e lo lasciò a riprendersi per lo stretto necessario,
poi lo spronò a ripartire. Non c’è altro da fare in quei casi, non puoi certo
fermarti su quel diagonale e chiamare l’elicottero come uno sfigato qualsiasi
che si è cagato addosso, troppo esposto e pericoloso.
Al termine del tratto terrificante la pendenza rimase uguale
ma almeno fu possibile iniziare a fare delle curve. Dopo poche decine di metri
di discesa fu tutto come prima, il battito del cuore tornò normale, la neve
iniziò a trasformarsi nell’agognato firn,
e la sciata tornò a essere divertente dopo aver rischiato di trasformarsi in un
incubo. I due superarono con prudenza la pericolosa crepaccia terminale fonda e
nera come una foiba sfruttando sapientemente un ponte di neve, arrivarono a valle
giusto in tempo per un piatto di polenta concia con fontina, abbondantemente
innaffiata da un vino rosso locale, e dell’episodio non se ne parlò più. Ben
presto l’inverno finì, la neve se ne andò e i due amici passarono l’estate a
camminare, andare a funghi, andare a pescare, e ogni tanto ad arrampicare sulle
falesie di fondo valle.
Jean Claude però diventava ogni giorno più cupo. D’estate era
lui quello che aveva più tempo per pensare. Marco nei cantieri lavorava molto
di più che d’inverno, mentre Jean Claude faceva il giardiniere nelle ville dei
signori milanesi a Courmayeur, e ogni anno c’era sempre meno lavoro. Gli
anziani aristocratici che frequentavano il paese negli anni addietro ormai
erano troppo vecchi per muoversi dalla città, molti non c’erano più, e i figli
non frequentavano volentieri la noiosa montagna estiva. Parecchi giardini erano
lasciati andare, e Jean Claude era sempre più depresso.
Non riusciva a vedere la bambina che un paio di volte l’anno
e sentiva che piano piano per lei il vero padre era ormai diventato l’altro,
quello di adesso, quello che la stava crescendo, quello che le comprava i
giochi e la portava al mare. Niente di buono per lui, era chiaro a Marco ma
anche ai colleghi, agli amici del bar, a tutti ormai.
Jean Claude non stava affatto bene purtroppo, e beveva ogni
giorno di più.
Arrivò anche l’inverno successivo e, benedette da tutti gli
abitanti del luogo, molto presto vennero le prime nevicate, benedette sì ma
anche le più pericolose.
Marco si stupì quando Jean Claude una sera al bar gli chiese
se avrebbe voluto ereditare i suoi sci in caso gli fosse successo qualcosa. In
realtà disse questa cosa da ubriaco e Marco non gli dette troppo peso, ma la
questione lo preoccupò comunque.
La depressione in montagna è più pericolosa che altrove.
La settimana prima di Natale il giorno di riposo di Marco
cadde in coincidenza con una nevicata eccezionale. Il bollettino nivologico
della Valle dava pericolo valanghe 4, e decise di andare a sciare nei boschi
della Val Veny. Ormai era abbastanza esperto dei luoghi da fidarsi anche ad
andare da solo, e comunque c’erano parecchi locals
in giro quel giorno. In gran parte erano giovani maestri di sci o di snowboard
e guide alpine, tutti a fare fiato su quella neve alta e faticosa in vista
della lunga stagione invernale.
I boschi sono
abbastanza sicuri in quei casi anche se il pericolo 4 è il secondo più alto
nella scala. Se sai quello che fai al massimo puoi staccare piccole colate
sulle quali sciare come un surfista su un’onda, si sa che tra tutti quegli
alberi non partono mai valanghe pericolose, ma devi stare assolutamente lì e
non sgarrare.
La neve tra i larici e gli abeti arrivava a metà coscia, e
Marco la sentiva distaccarsi frequentemente sotto agli sci, appoggiata su un
terreno che forse non aveva gelato a sufficienza prima della grande nevicata.
Ogni curva era una colata, e spesso ti trovavi dentro fino alla pancia, era
veramente divertente.
Jean Claude era in servizio ma riusciva ogni tanto a unirsi
agli amici sciando tra gli alberi per spostarsi da un posto all’altro sul
comprensorio. Sistema una rete qua, controlla un cannone là e intanto 2 o 3
discese spettacolari se le era fatte. Era raggiante, Marco non lo vedeva così
da un bel po’. Si divertiva come un bambino a gareggiare con ragazzi di
vent’anni più giovani usando le piante come paletti di una pista da slalom.
Jean Claude era velocissimo e in formissima.
-Fratello, questa le ricorderemo
come La grande sciata… mai trovata
una neve così a inizio stagione !!!
Marco non capiva l’euforia esagerata dell’amico, avevano già
trovato condizioni migliori, ma andava bene così, almeno all’apparenza Jean
Claude era tranquillo e felice. In realtà la faccenda era molto più complessa
ma al momento Marco non poteva saperlo.
Verso la fine della mattinata però qualcosa cambiò. Il cielo
si coprì e l’aria diventò velocemente più calda a causa di un vento di föhn che era arrivato improvviso. Anche
se non era superstizioso Marco pensò alle varie leggende di tutti i popoli del
mondo che associano il vento caldo a disgrazie, terremoti e altre calamità e fu
attraversato da un brivido. Era arrivata l’ora di fermarsi.
La neve si era fatta più pesante e nel giro di mezz’ora la sciata era
diventata decisamente più faticosa di
quel che già era, molto meno piacevole e soprattutto pericolosa. Con le gambe
stanche, in quella neve era un attimo lasciarci un legamento di un ginocchio, e
non è una cosa da augurarsi a inizio stagione, proprio no.
I due amici si ritrovarono nel pomeriggio in un bar alla
partenza di un impianto a bere birre con un gruppo di maestri di sci, e per
Marco la giornata avrebbe potuto finire tranquillamente lì, ma Jean Claude
doveva finire il turno, ancora un’ora, e insistette per fare un’ultima discesa.
L’amico accettò di malavoglia. Era un po’ alticcio e non voleva rischiare ma decise
comunque di accompagnare Jean Claude, che in seggiovia si fece silenzioso.
Raggiunsero il Colle dello Checrouit, Jean Claude doveva scendere alla stazione
a valle della seggiovia della Zerotta e dopo alcune curve sulla pista
battuta scavalcarono le reti posizionate
proprio da Jean Claude e dai suoi colleghi nei giorni precedenti per evitare
che qualche turista si andasse a ficcare nei guai. In quel punto inizia un
lungo canale fiancheggiato da dossi e boschi su entrambi i lati. Una grossa
cornice di neve si affacciava quel giorno sul pendio, una massa instabile che a
un qualsiasi occhio esperto avrebbe messo i brividi. Il canalone sembrava la
bocca di un drago, pronto ad inghiottire il primo malcapitato che fosse finito
per sbaglio in quell’imbuto. Jean Claude si tenne sul dosso di destra poi si
fermò ai margini del bosco lasciando passare avanti Marco, quindi partì a sua
volta.
Marco non si accorse della diversione di Jean Claude finché
non sentì il rombo.
Fu come un terremoto, una grossa crepa si aprì nel manto
nevoso e Marco alzando la testa vide la cornice di neve scendere prima
lentamente poi sempre più veloce verso il basso. Erano al sicuro, pensò in un
attimo, la valanga si era staccata nel canale, a poche decine di metri, e loro
erano in mezzo agli alberi. Nessun problema, almeno all’apparenza. Fece però
appena in tempo a vedere l’azzurro della giacca di Jean Claude scomparire in
una nuvola bianca alla sua sinistra e capì all’istante.
Che cavolo era successo?
Jean Claude non avrebbe mai commesso l’errore di infilarsi
in quel canalone privo di alberi, non era da lui nemmeno se fosse stato ubriaco
fradicio. Solo dopo capì, o credette di capire, durante la disperata ricerca
con l’apparecchio Arva insieme ad altri sciatori. C’era andato apposta, voleva
farla finita come piaceva a lui e non avrebbe mai voluto lasciare alla figlia
il ricordo di un padre suicida. L’assicurazione avrebbe pagato una grossa cifra
alla bambina (si seppe poi che Jean Claude qualche mese prima aveva nominato un
tutore legale onde evitare che i soldi in caso di incidente finissero per essere amministrati dalla ex moglie e dal
nuovo marito), e tutti i colleghi avrebbero testimoniato che Jean Claude era in
servizio e che si era trovato in quel punto per sistemare le reti che erano
state spostate dal vento. Un piano maledettamente perfetto !!!
Quando si alzò in volo l’elicottero tutto il paese era già a
conoscenza del fatto. Il corpo di Jean Claude fu trovato sotto a 70 cm di neve,
e all’inviato della Stampa in attesa all’hangar del soccorso alpino non fu data
alcuna informazione prima che venissero avvisati tutti i parenti. In paese
colleghi e amici non ebbero bisogno di tante spiegazioni per capire com’era
andata la faccenda. Chi conosceva bene Jean Claude capì e basta ma nessuno lo
disse chiaramente, bastarono gli sguardi al funerale, e all’immancabile bevuta
successiva.
Marco per Natale tornò a Novara e non mise mai più piede in
Valle, neanche per le annuali messe celebrate in memoria dell’amico nella
chiesa di Morgex, e questo a molti non piacque, ma lui era fatto così. Jean
Claude gli aveva dato tanto e lui più che un bicchiere alla sua salute quando
gli veniva la malinconia non riusciva a dargli, ma sapeva che per l’amico era
più di tante messe…